Nel testo verranno usati come soluzioni grafiche i fonemi dello schwa – ә – e dello schwa lungo – з – con la funzione di desinenze inclusive, rispettivamente lo schwa per le desinenze singolari e lo schwa lungo per quelle plurali, come proposto dal sito web “Italiano inclusivo”.
Lo scorso 8 marzo è stato l’anniversario dell’inizio dei primi DPCM e delle misure restrittive che hanno sancito l’inizio del lockdown della scorsa primavera. Specularmente, è anche l’anniversario delle rivolte avvenute nelle carceri italiane nel 2020, scoppiate quando fu impedito l’accesso ai colloqui con parenti e familiari. Innanzitutto, qui non si vuol sminuire l’importanza che assume per la popolazione detenuta poter parlare con le persone care poiché è l’unica possibilità, sia per chi sta fuori che per chi sta dentro, di allentare l’isolamento opprimente dell’attesa dello sconto della pena. Oltretutto, spesso è l’unico mezzo che si ha per poter mangiare del cibo decente senza doverlo pagare quasi al doppio del prezzo oppure per poter avere dei vestiti puliti, oggetti personali per la propria igiene e così via. Proprio perché la possibilità di mantenere i legami con l’esterno, quando questo è possibile, resta uno dei pochi fattori che consente un parziale affrancamento dall’istituzione carceraria, il fatto che dall’oggi al domani avessero bloccato i colloqui ha creato non poca tensione all’interno degli istituti penitenziari.
Naturalmente, però, non si è trattato solamente di questo. Le rivolte sono scoppiate in un clima di esasperazione, in cui la popolazione detenuta è stata completamente ignorata, per niente informata di quel che stesse accadendo fuori e di quale fosse il clima che avesse spinto a dei cambiamenti così improvvisi. Senza nessun avvertimento, la popolazione detenuta è venuta a conoscenza dell’imminente lockdown e del blocco dei colloqui, di nuove disposizioni interne, di trasferimenti tra i bracci per istituire delle zone di isolamento per chi avesse contratto il virus, con solo mezzo di informazione i notiziari televisivi, che un anno fa erano nel caos più totale e, a fronte della grande disorganizzazione del governo, non potevano che creare allarmismi e confusione.
Questo contesto, ovviamente, si somma alle ordinarie condizioni di sovraffollamento e di sanità inesistente, il che ha scatenato nelle persone ristrette una paura enorme di contrarre questo male ignoto. Ciò ha portato all’inevitabile scoppio delle rivolte per tutta la penisola, da Milano a Opera, da Modena a Roma, da Napoli a Palermo. Ciononostante, il Ministero di Giustizia e gli organi di stampa non hanno esitato ad addurre spiegazioni altre, imputando le rivolte ad azioni coordinate con i vertici delle organizzazioni criminali all’esterno e persino alla partecipazione e premeditazione da parte di gruppi anarchici.[1] Infantilizzare e spersonalizzare la maggioranza della popolazione detenuta è uno dei primi intenti da parte dei regimi democratici, in modo da poter più facilmente annichilirne le ambizioni, di libertà come banalmente di ottenere dei minimi diritti garantiti, e di farla apparire come inumana, indegna di qualsiasi concessione.
La stessa presenza delle famiglie è stata considerata come una presenza preordinata, quando, al contrario, è stata la forza congiunta delle rivolte all’interno e delle proteste all’esterno – con partecipazione sia di parenti che di gruppi di solidali – a portare attenzione alla penosa e pluridecennale situazione penitenziaria e che le maldestre disposizioni governative hanno solo amplificato. Anzi, l’attenzione mediatica è stata attirata perlopiù sugli istituti maschili (essendo questi quelli con il maggior numero di detenuti), proprio a causa del protagonismo di madri, mogli, sorelle e figlie che si sono riversate nelle strade a dare man forte alle proteste da dentro. Più in sordina sono passate le proteste nelle sezioni femminili – che tuttavia ci sono state, come a Rebibbia e Regina Coeli a Roma e a Chieti.
All’indomani delle rivolte, l’11 marzo scorso, l’allora ministro della giustizia Bonafede ha presentato in Parlamento un discorso nel quale si è attuato il solito e stranoto rito dello scaricabarile, imputando le responsabilità ai governi precedenti per le mancanze e i problemi attuali, contrappuntando la solita manfrina con il plauso alle forze di polizia penitenziaria, per poi millantare una (mai avvenuta) informazione e sensibilizzazione della popolazione detenuta rispetto alle disposizioni da adottare per l’emergenza pandemica,[2] criminalizzando le rivolte e le proteste dei giorni precedenti e creando i due finti schieramenti dei buoni che hanno collaborato e non vi hanno partecipato e dei cattivi che le hanno aizzate.
La presa di posizione del Governo per bocca del ministro Bonafede ha avuto l’esito di delegittimare rivolte senza le quali non si sarebbe mai puntato il riflettore su problemi endemici agli istituti carcerari, sulle preoccupazioni concrete di subire il contagio. Sì, perché mentre all’esterno era obbligatorio mantenere la distanza di due metri, dietro le sbarre non era nemmeno rispettato lo spazio personale di almeno 3 metri quadri a persona, di per sé impossibile da attuare in celle con 8 o 10 persone. Naturalmente non una parola parola sulla possibilità di mettere in atto il già esistente decreto n.199 “Svuotacarceri” sulle peni inferiori ai 18 mesi o di provare a concedere l’amnistia o l’indulto per evitare focolai interni. Non una parola sulle 14 morti avvenute durante le rivolte, la cui quasi totalità è stata attribuita ad overdose di farmaci, non ancora mai però davvero accertata e delle quali non si è mai dato una convincente spiegazione. Una vera e propria strage di Stato. Nel novero delle azioni repressive non si può tacere sull’utilizzo di trasferimenti disciplinari come metodi punitivi e intimidatori (chi scrive era presente quando un detenuto è stato trasferito dal carcere di Poggioreale di Napoli a Cosenza solo perché la madre due giorni prima aveva partecipato alla protesta al di fuori del carcere), in barba a qualsiasi misura sanitaria.
In un tale clima di tensione, le battiture, gli scioperi del carrello e della fame si sono susseguiti per settimane durante la quarantena della primavera, assieme a gruppi di familiari e di solidali che continuavano a protestare al di fuori delle galere per denunciare il controsenso delle condizioni di detenzione. Un’altra rivolta distintasi per crudezza repressiva è quella del 5 aprile a Santa Maria Capua Vetere (CE), sulla quale è stata persino aperta un’inchiesta ribattezzata “mattanza della settimana santa”:[3] il giorno dopo la rivolta, vari reparti della polizia penitenziaria, per un totale di almeno 300 agenti, hanno messo in atto una vera e propria spedizione punitiva: pestaggi brutali, insulti, sputi; alcuni detenuti sono stati fati spogliare, ad altri sono stati rasati capelli e barba.[4] Questa mattanza si inserisce perfettamente nel contesto dell’anno scorso: dove venivano richiesti indulto e amnistia o, quantomeno, la semilibertà per permettere di sfollare le carceri e evitare focolari, anche solo attraverso battiture o il rifiuto di rientrare in cella, la risposta doveva essere adeguata per ristabilire i rapporti di dominio.
Ad un anno di distanza, ci si ritrova nella situazione in cui il sovraffollamento endemico e sistemico delle carceri italiane è diventato un vero e proprio problema di salute, in cui per il 15,9% non vi è nemmeno un medico per tutte e 24 le ore,[5] dove le condizioni igieniche non sono adeguate, la mancanza di acqua calda o di doccia in cella è cosa comune. Altra consuetudine è la cronica mancanza di personale sanitario e paramedico o di connivenze varie, spesso e volentieri non viene concesso il ricovero ospedaliero e viene proposta come unica soluzione una “pillola magica” (come la tachipirina). Di fatto, l’emergenza causata dalla pandemia non ha fatto altro che inasprire le condizioni penose e indegne in cui versano le strutture penitenziarie di ogni ordine e rigore, rimarcando il poco interesse provato per le esistenze detenute da parte delle istituzioni e di quale sia il ruolo specifico di questo ordinamento: contenere qualsiasi comportamento deviante, specie quando questo replica la violenza che subisce.
Non a caso, qualsiasi tentativo di non continuare a vivere in condizioni così avvilenti, di denunciare o di evadere, viene punito in maniera esemplare. Proprio lo scorso febbraio, infatti, sono state emanate le prime sentenze per quelli che sono ritenuti i responsabili delle rivolte a Milano ed Opera, per cui vi sono condanne da 4 mesi e 2 anni e 6 mesi di reclusione per danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale, e pene fino a 2 anni e mezzo per aver appiccato l’incendio[6] – e spesso, buona parte delle prove sono “auto-denunce” ottenute tramite pressioni e intimidazioni da parte delle autorità penitenziarie.[2]
A questi processi, poi, si aggiunge anche quello dell’inchiesta aperta per l’esposto firmato da 5 detenuti trasferiti dal Sant’Anna di Modena proprio durante le proteste a quello di Ascoli-Piceno, verso il mese di novembre 2020. In questo esposto i cinque raccontato delle gravi violenze subite già alla fine della rivolta di Modena, nonostante loro si fossero consegnati volontariamente agli agenti dichiarando di non aver preso parte alle rivolte. Inoltre, qui è descritto come un loro compagno, Salvatore “Sasà” Piscitelli, sia arrivato nel carcere di Ascoli-Piceno in condizioni disastrose a causa delle percosse e, pur costatando le condizioni di alterazione e le visibili contusioni, vi è stata omissione di soccorso,[7] fatto che lo ha quindi condotto al decesso il 10 marzo 2020 nello stesso carcere. Proprio grazie a questo esposto è stata aperta un’indagine per omicidio colposo e, cosa più importante, si è aperta uno spiraglio di luce sulla faccenda che voleva essere insabbiata.
Naturalmente, subito dopo l’esposto i cinque sono stati riportati al carcere di Modena e posti in isolamento,[8] durante il quale hanno subito forti pressioni ed atti intimidatori, come nel caso di Mattia, al quale, dopo essere stato ancora una volta trasferito al carcere di Ancona, è stato impedito di contattare la propria famiglia per oltre 3 settimane, superando i dieci giorni di isolamento per covid; gli sono stati bloccati il pacco e la lettera; gli è stato intimato di non testimoniare, pena la possibilità di essere a sua volta accusato di omissione di soccorso; è stato persino impedito di fare i dovuti controlli per un’ernia.[9]
Tutto ciò, oltre a far crescere la rabbia per l’impunità dei servi della “giustizia” borghese, fa anche riflettere sul fatto che l’enorme difficoltà di portare a galla le colpe e i soprusi delle autorità penitenziarie sussiste nonostante l’appoggio di associazioni per diritti di detenutɜ, familiari e solidali. Se si pensa che la maggioranza dei morti dello scorso marzo sono persone migranti, i cui nomi si sono conosciuti solo settimane dopo[10] e la cui vera sorte forse non si saprà mai, si nota come il razzismo istituzionale in questi casi agisca in maniera ancor più subdola, facendo scomparire nomi, vite, storie. A questo poi si somma la lettera scritta da 6 detenuti presenti durante la rivolta del carcere di Varese dello scorso gennaio,[11] in cui denunciano, analogamente, l’omissione di soccorso per un uomo di 50 anni che aveva presentato un malore, a cui avevano somministrato solo una tachipirina, lasciato morire in cella, anche per mancanza di personale medico sanitario.
Dulcis in fundo di questa panoramica sono l’arrivo di una circolare del capo della polizia di questo febbraio[12] e il piano vaccinale. La circolare prevede un intervento diretto delle questure e dei comandanti della polizia penitenziaria nell’impiego dei reparti mobili, militari e persino idranti e protezione navale e area. Una militarizzazione totale della gestione dei disordini interni alle carceri, con una spiccata attenzione per tutte le manifestazioni esterne, che potrebbero “incidere sull’ordine e la sicurezza delle strutture penitenziarie”. Insomma, una mossa che tenta di allontanare ancora di più la vicinanza dellɜ proprɜ carɜ e dellɜ solidali a chi lotta per migliorare quanto meno le proprie condizioni di vita reclusa.
Rispetto al piano vaccinale, seppur con molto ritardo e con forte pressione dei sindacati di polizia penitenziaria, pare sia cominciata la campagna sia per tutto il personale degli istituti sia per la popolazione detenuta, nonostante le difficoltà riscontrate dalle varie ASL regionali. Ad esempio, solo qualche settimana fa, a fine aprile, sono cominciate le vaccinazioni al carcere di Poggioreale e di Secondigliano, con vaccinazioni prenotate soprattutto per categorie a rischio e ultrasettantenni e ultraottantenni.[13]
D’altra parte, c’è da far presente che i giorni 1 e 15 febbraio si sono tenute delle battiture dalla sezione femminile del carcere di Trieste, per mezzo delle quali sono state avanzate richieste tra cui l’indulto, domiciliari e messa alla prova, una maggiore socialità e apertura delle celle, rafforzamenti della sanità in carcere come priorità rispetto al piano vaccinale – e in ogni caso, la richiesta di poter scegliere se vaccinarsi o meno.[14] Premesso che chi scrive ritiene che il vaccino sia uno strumento che salva delle vite e che viene assoggettato al mercato capitalista in quanto prodotto,[15] credo sia altrettanto importante dare voce e solidarietà a chiunque voglia emanciparsi e autodeterminarsi da sé, esponendo le proprie perplessità ed incertezze. Non è difficile immaginare che, d’altro canto, le istituzioni vogliano strumentalizzare la campagna vaccinale presentandola come panacea di problematiche preesistenti all’emergenza, ignorandole del tutto e passandoci sopra, proprio nel momento in cui nel dibattito pubblico cominciava a risuonare il tema dell’indulto, anche da parte di personaggi che smuovono l’opinione pubblica.[16]
Terminato questa specie di bollettino, ci sarebbero pochi e brevi riflessioni da fare. Innanzitutto, il modo in cui la pandemia ha fatto risaltare le problematiche già endemiche al sistema carcerario italiano, rispetto alla sanità, alla costituzione delle gerarchie interne, agli abusi e alle privazioni, è molto in linea con quanto accaduto nella società cosiddetta libera e la mala gestione ne acuisce le contraddizioni. Questo lo si può notare anche nella militarizzazione costante delle nostre strade e della gestione della pandemia, con la gestione delle rivolte interne e le manifestazioni esterne; nell’invisibilizzazione delle detenute donne e del ruolo che le mogli e le parenti hanno all’esterno, in quanto incaricate del lavoro di cura dal sistema patriarcale in cui viviamo; del doppio filo di sfruttamento a cui sono sottoposte le persone migranti, nel mercato “libero” del lavoro come nei lager-CPR.; anche nella polarizzazione che subiamo rispetto alla questione di una vita in salute, per la quale si potrebbe avere la fermezza di riprendersi tutto. In barba alla retorica democratica della rieducazione, il carcere si mostra per quello che è: l’università del “crimine”, il luogo in cui, ugualmente o peggio alla società in cui si vive, si replica e si agisce la stessa violenza, la stessa prevaricazione che si subisce quotidianamente. Un luogo di dominio, di annichilimento e morte.
Dal momento che il carcere può essere considerato lo specchio di una società, dovrebbe essere un tema che rinnovi le nostre agende politiche. In carcere non c’è contrattazione che tenga: per ottenere qualcosa bisogna solo lottare, come dimostra la riforma carceraria del 1975, culmine di quelle rivolte che cominciarono tra il ‘68 e il ‘69. Da anarchicɜ, libertarɜ, il carcere è un ostacolo al nostro obiettivo di una società di eguali, mantiene l’ordine sociale ed economico e funziona come una discarica. Organizzare presidi di solidarietà, stringere rapporti con le famiglie e con chi è reclusə, creare reti di solidarietà per supportare processi e rivolte, è un punto di partenza per cominciare una lotta che non lasci nessunə indietro. Fino a quando non ce ne saranno più. Fuoco alle galere!
Poch
NOTE
[2] https://napolimonitor.it/alta-sicurezza-e-processi-rivolte-vite-sospese-detenuti/.
[3] https://ecointernazionale.com/2021/01/tortura-carcere-mattanza-settimana-santa/.
[4] Un video di raccolta dei dialoghi di alcuni familiari con i detenuti di Santa Maria Capua Vetere è stato fatto dal gruppo “Parenti e amici dei detenuti di Poggioreale, Pozzuoli e Secondigliano” e pubblicato il 13 aprile su facebook: https://www.facebook.com/733513150077469/videos/271717077163498 ; https://www.facebook.com/733513150077469/videos/2533411310306848/.
[6] https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/covid-carcere-1.6066312.
[8] http://www.osservatoriorepressione.info/carcere-cinque-detenuti-firmano-un-esposto-cosi-lasciato-morire-sasa/ — a questo link si può leggere anche il testo dell’esposto.
[9] https://www.ondarossa.info/newsredazione/2021/02/intimidazioni-carcere-mattia-dopo.
[10] http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/ , per conoscere i nomi, si può consultare il dossier “Morire di carcere” dell’associazione Ristretti Orizzonti.
[14] https://www.inventati.org/rete_evasioni/?p=3953.
[15] A questo proposito, è stato scritto un articolo nel 2017 su UN a cui rimando: https://umanitanova.org/?p=5247.
[16] https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/12/02/le-carceri-smettano-di-essere-atenei-della-criminalita/6023685/ , questa la lettera inviata da Saviano a Travaglio nel dicembre 2020.